VENT’ANNI NEL DUEMILA

Il cinema nell’epoca dell’arte televisiva

      Fra i principali fenomeni socio-culturali del decennio lungo c’è sicuramente l’ascesa del web come nuovo medium egemone: il sesto potere che si è mangiato in un sol boccone il quarto e il quinto, la stampa e la televisione. Quest’ultima si è però presa la sua rivincita in ambito artistico, andando a insidiare il primato del cinema come arte audiovisiva, dopo decenni in cui il palinsesto televisivo era stato artisticamente irrilevante. La centralità delle serie televisive nell’estetica contemporanea è ormai un dato di fatto, ben evidenziato e analizzato dal saggio di Luca Bandirali per questo Speciale.

      Come ha reagito il cinema, “l’occhio del Novecento”, a questa inattesa invasione di campo cominciata al volgere del secolo? Quali tratti cinematografici peculiari meglio hanno contribuito a far fronte all’insidioso sfidante televisivo? Una prima strategia di risposta ci porta a considerare il potenziale plastico e spettacolare del grande schermo, che negli ultimi vent’anni è stato valorizzato in particolar modo dal connubio fra la tecnologia digitale e l’estetica del fumetto. È un processo che inizia con XMen di Singer (2000) e SpiderMan di Raimi (2002), per poi raggiungere vertici di complessità e virtuosismo nelle opere di cineasti come Rodriguez, Nolan e Snyder. Su questo tema lo Speciale presenta una proficua dialettica fra Roy Menarini, che esprime scetticismo riguardo alla nuova estetica dei blockbuster digitali, e Alessandro Torza, che insiste invece sulla rilevanza artistica e sulla profondità filosofica di una certa tendenza del cinefumetto contemporaneo, esemplarmente incarnata da Batman v Superman: Dawn of Justice.

      Una seconda peculiarità cinematografica nell’epoca dell’arte televisiva è la vecchia cara (cara?) politique des auteurs, croce e delizia della cinefilia. Come noto, le serie Tv solitamente non hanno un autore, inteso come regista che dà la sua impronta all’opera mediante la messa in scena. Se proprio ci sono degli autori, sono i cosiddetti showrunner, figure ibride di sceneggiatori e produttori (da J.J. Abrams a Charlie Brooker, da Ryan Murhpy a Matthew Weiner). È un fatto, però, che l’apprezzamento estetico delle serie si sia finora concentrato sopratutto sulle opere. Invece, come mostra vividamente il contributo di Andrea Bellavita a questo Speciale, nel cinema contemporaneo resta cruciale il culto degli autori, che ha le sue roccaforti nei festival.

L’autore come serie

      Sebbene la figura dell’autore marchi una differenza importante fra il cinema e le serie televisive, c’è anche una corrispondenza che a mio avviso non ha sinora ricevuto l’attenzione che meriterebbe. L’autore cinematografico assomiglia a una serie. Ogni suo nuovo film è come una nuova stagione che può essere valutata non solo come oggetto a sé stante ma anche come componente di un’opera più ampia, che nel caso televisivo è la serie stessa mentre nel caso cinematografico è la filmografia del cineasta, quella che si potrebbe definire “serie-autore”. Come una serie Tv tipicamente inanella stagioni finché il network non la chiude, così la serie-autore inanella film finché la salute dell’autore medesimo lo sostiene. Economiche o biologiche che siano le ragioni della chiusura, la serie Tv e la serie-autore sono oggetti d’apprezzamento estetico accomunati dall’estensione temporale: non solo raccontano storie ma soprattutto hanno a loro volta una storia, un ciclo di vita.

      Detto questo, che ne è delle serie-autore negli ultimi vent’anni? Il mio sospetto è che si tratti per lo più di serie che hanno dato il meglio di sé nel secolo precedente, e che ora si limitano a variazioni sul tema e note a margine, se non proprio a snocciolare nuove stagioni per mera inerzia. Fra gli autori più celebrati del decennio lungo, ci sono vari cineasti i cui film migliori si situano negli anni Novanta (Assayas, Burton, i Coen, Eastwood, Tarantino…) o addirittura nei decenni precedenti (Allen, Almodóvar, Malick, Moretti, Cronenberg, Scorsese…). Non è facile trovare un grande autore del cinema contemporaneo che abbia dato il meglio di sé nel nuovo secolo. Si potrebbero forse menzionare Wong Karwai, P.T. Anderson, Van Sant, i Dardenne, von Trier, Sokurov, Haneke, ma non ne sarei così sicuro. Fra le eccezioni c’è sicuramente il Lynch di Mulholland Drive, probabilmente il film più discusso e amato (non da me, ma che importa) del periodo in questione. Però stiamo parlando di un film del 2001, che fa dittico con un altro del 1997, Strade perdute: sembra più un ultimo bagliore degli anni Novanta, anziché una pietra miliare del cinema del Duemila.

      Poi ci sono le serie-autore che hanno esordito nel nuovo secolo, quelle di Larraín e Mungiu giusto per citarne un  paio, oltre a tante altre che si possono incontrare nell’intervento di Bellavita. Qui ci si addentra in una questione spinosa, che peraltro affiora anche in alcuni passaggi del saggio di Menarini: non sarà forse che le serie-autore degli anni Duemila, per quanto ammirevoli, non sono all’altezza di quelle cui ci avevano abituato i decenni precedenti? La mia tentazione sarebbe di rispondere che è proprio così, ma argomentare su questo punto porterebbe troppo lontano. E poi si potrebbe sempre obiettare che sopravvalutare il passato e sottovalutare il presente è una delle fallacie più radicate nell’anima umana, come peraltro spiegato magistralmente proprio in un film del periodo di cui stiamo trattando: Midnight in Paris.

I film fuori-serie

      Mi limito allora a constatare che fra i miei film preferiti del decennio lungo ci sono soprattutto dei “fuori-serie”: titoli come Almost Famous, Funny PeopleYoung Adult, il cui valore estetico è sostanzialmente indipendente dall’eventuale collocamento all’interno di una serie-autore. Del tutto “fuori-serie” è anche quello che continua a sembrarmi uno dei fenomeni più interessanti del cinema del nuovo secolo: la neo-commedia hollywoodiana – o “Filmetto”, come  è stata ribattezzata su Segnocinema – la cui estetica spregiudicata oggi si fa sentire anche nel cinema americano più esplicitamente artistico o politico: i casi di Green BookVice Joker, firmati rispettivamente dai registi di Amore a prima svistaAnchorman Old School, sono lì a dimostrarlo. E non è forse vero che due fra i più celebrati nuovi autori americani, Wes Anderson e Noah Baumbach, hanno dato il meglio di sé proprio nei loro incontri – nei Tenenbaum e in Greenberg – con l’interprete più emblematico del Filmetto, vale a dire Ben Stiller?

      Se ne potrebbe dibattere all’infinito. Il punto è che i film del decennio lungo, tanto quelli amati quanto quelli odiati, mi appassionano come pochi altri: sono i film della mia vita, non fosse che per il banale fatto anagrafico che questi vent’anni stanno proprio al centro della mia vita. Da qui l’idea di coinvolgere in questo Speciale altre persone che nel 2000 avevano, chi più chi meno, un’età fra i vent’anni e i trenta: la generazione che, mentre sullo schermo scorrevano questi film, è diventata adulta a tutti gli effetti. Ne risulta dunque uno sguardo sul cinema di inizio secolo volutamente parziale e polarizzato: vent’anni nel duemila raccontati da chi, come il Jonas di Tanner, aveva vent’anni nel 2000. A tale parzialità cercheremo comunque di porre rimedio nel prossimo numero, in cui lo Speciale sarà integrato da una seconda parte destinata ad aprirsi a una maggiore varietà di prospettive.

fonte: giornale Bimestrale SEGNOCINEMA n220

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