Che attore Marocchi: “Quel milordino mi somiglia”

BOLOGNA. “Faccio la parte di un commercialista ed è una coincidenza divertente. Ho studiato ragioneria e se non finivo a fare il calciatore magari adesso era il mio mestiere ».
Ciccio Marocchi è Ciccio Barontini, scooterone e sciarpone rossoblù d’ordinanza, milordino da tribuna Gold nel docufilm Mi chiamo Renato, il lavoro che celebra i 90 anni di storia dello stadio bolognese. Da mediano di qualità e fatica, tra Bologna e Juventus fra gli anni ‘80 e ‘90, ora ha una parte da recitare, ma con la stessa tenacia di allora.

Marocchi, come è nata questa occasione?
«Ero in Piazza Maggiore la sera che proiettarono Il cielo capovolto, sulla storia dello scudetto del 1964. Fantastico, mi sono emozionato, e alla fine l’ho detto a Emilio Marrese, uno degli autori. Quando è nato questo documentario si è ricordato di me. “Ci sei?”, mi ha chiesto. Io inconsciamente ho detto sì. Tanto, mi sono detto, mi faranno stare muto e in scena per pochi minuti, invece… ».

«Sì, un misto tra realtà e finzione, perchè io sono anche quel bambino che andava in curva San Luca e nei Distinti, allora c’erano i gradoni e non i seggiolini, e che guardava con invidia quelli che andavano in tribuna e potevano arrivare all’ultimo momento. Il Ciccio vero sognava allora di giocare nel Bologna, Barontini sogna di andare un giorno in tribuna e arrivare un quarto d’ora prima dell’inizio. Faccio il milordino che ce l’ha fatta ad arrivare lì e che si lamenta ugualmente per la squadra, non gli va mai bene niente. Tra i privilegi ho pure una segretaria personale, Sabrina Orlandi».

Lo stadio Dall’Ara cosa ha rappresentato per lei?
«Realizzare un sogno e avere una storia da raccontare. Che poi credo sia anche lo spirito di questo lavoro. È un documentario davvero interessante, con tanta storia dentro. Vedere quanti personaggi, quanti episodi e avvenimenti siano passati di lì, ti colpisce. Io da ragazzo mi ricordo che i vecchi dirigenti ti raccontavano qualcosa, ma era un privilegio per pochi. Adesso tutti possono scoprire una vicenda che ha novant’anni».

Più facile dare la caccia al pallone a centrocampo o recitare?
«Beh, penso e spero di essermela cavata anche in scena. Mi sono detto: qui studia bene la parte, le battute, lascia perdere le improvvisazioni e segui quello che ti dice il regista Paolo Muran. Non volevo costringere nessuno a fare troppi ciak».

L’atmosfera sul set?
«In realtà abbiamo girato le rispettive parti singolarmente. Solo l’ultima sera ci siamo ritrovati tutti. C’era una bellissima atmosfera, ho capito che tutti avevano lavorato con passione. Che è la cosa che serve per avere un bel risultato».

Per lei tornare allo stadio a girare le scene, anche di sera quando è chiuso, sarà stato un modo anche per vederlo con occhi diversi. E pure nostalgici; il Dall’Ara così com’è tra qualche anno non ci sarà più.
«È vero e a volte non ti rendi conto di quanto sia bello, vedendolo così, anche vuoto. Adesso il vecchio Dall’Ara sarà rinnovato e penso che, come per tutte le cose, i tempi cambiano e servono novità. Ma mi sono reso conto di una cosa: la storia, le storie, che sono passate di lì non si cancellano e le nostalgie per un luogo non devono fermare eventuali novità. Ma la Torre di Maratona deve restare così, imponente. Non facciamo che per il nuovo andiamo a svalorizzare, a rendere meno visibile, quello che è il simbolo del Dall’Ara. Un nuovo finto non mi piacerebbe. E soprattutto lo stadio deve restare in città, non tocchiamo almeno quello».

Era all’anteprima di “Mi chiamo Renato” lo scorso 3 agosto in Piazza Maggiore?
«Non ci sono andato perchè mi è salita l’ansia. Strano, perchè durante la mia carriera ho giocato in stadi pieni di tifosi e non solo in Italia. Ma immaginare di rivedermi sul grande schermo, così in mezzo a tutta quella gente, e mi hanno detto che ce n’era tanta, al pensiero mi sono tremate le gambe. Mi sono rivisto a casa, schermo piccolo e nessuno intorno».

Quindi contento della prestazione ?
«Abbastanza ma Vito e Adam Masina hanno fatto meglio».

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