Donsah, splendori e fatiche di un migrante salvato dal pallone: “Così ce l’ho fatta”

BOLOGNA – “Quando torno in Ghana noto che tutto è cambiato in me, lo vedo anche dal modo di camminare dei miei amici”. Con l’italiano ancora zoppiccante ma l’ingegno lesto come il suo machete, Godfred Donsah offre questa e molte altre immagini di una vita parallela distante sette ore d’aereo e, soprattutto, cinquecentomila euro di salario. E siccome là “200 euro equivalgono a 10.000 in Italia”, come spiega nel docufilm girato dal Bologna e in onda da oggi alle 12 sul sito del club, si capisce subito che i sogni di questo ventenne sono stati sparati in orbita senza preavviso. Rimanere coi piedi per terra, l’antico adagio d’ogni mamma, diventa quindi il vero allenamento quotidiano. Poi, nei venti minuti di riprese a Sunyani, la città della famiglia Donsah a un’ora di volo dalla capitale Accra, si scopre anche molto altro: ci sono, senza citare Proust, i profumi di madeleine delle prime scarpe da calcio, il “campo di merda” in cui Donsah sognava di diventare il nuovo Muntari, le lacrime del padre William che lo riabbraccia dopo otto anni di lontananza. Era finito, come tanti migranti nei campi di pomodori a spedire soldi alla famiglia. “Ed è così – ricorda Godfred – che a 13 anni ho potuto vedere la televisione a casa mia”.

Prima come faceva?
“In Ghana qualcuno coi soldi c’è. Andavo a casa di amici a vedere la tivù, ma dovevo vestirmi bene, con la camicia”.

L’idea del documentario le è piaciuta?
“Io sono questo, la verità è la verità. In una vecchia intervista dissi che se non avessi fatto il calciatore avrei lavorato nelle piantagioni di cacao, che distano 15 chilometri da casa. È così. Anzi: quando smetterò, comprerò terreni di cacao per farci lavorare più gente possibile”.

Da come taglia i frutti sembra esperto.
“Se guidi senza patente, un incidente lo fai, prima di imparare. Immaginate col machete”.

Ha pensato di portare i suoi genitori e le sue tre sorelle qui?
“È bello lavorare, e loro là col mio aiuto possono farlo, qui sarebbero solo turisti. A turno, vengono a trovarmi tutti. E alle mie sorelle ho detto: studiate e lavorate, perché farsi mantenere da un uomo non va bene”.

Scusi, ma lei compie davvero vent’anni il sette giugno?
“Se sono così è merito di mio padre, che ha attraversato il Sahara in un mese prima di imbarcarsi per Lampedusa; e di mia madre Confort, che non mi ha vietato il calcio e mi ha insegnato a non sperperare. I soldi servono se si condividono. Ma bisogna anche insegnare ad usarli. Con 200 euro, che per me sono niente, in Ghana si può diventare imprenditori, magari barbieri”.

E quando vede i suoi coetanei distruggere le Ferrari?
“Ognuno fa quello che ritiene giusto. Io non posso dimenticare da dove vengo: ricordo ancora l’effetto dei profumi che portavano al mio paese i calciatori. Quando vado in una stanza d’albergo lussuosa e penso a dove dormivo a casa mia, non posso che ringraziare Dio, visto che sono cristiano”.

E se le tirassero una banana durante una partita?
“Io corro e fatico, in campo. La banana fa bene. Se m’arriva ringrazio e me la mangio. Sono buonissime”.

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