Igort, disegnatore e autore di ‘My Generation’

21 novembre alla libreria Coop Ambasciatori (alle 18.30).

Bologna, 8 novembre 2016 – C’è un giovanissimo Andrea Pazienza e il rock demenziale di Freak Antoni, ci sono le riviste che ereditarono lo spirito creativo del ’77 e Francesca Alinovi, la docente del Dams che fece scoprire agli italiani i graffitisti newyorkesi, prima di morire assassinata. C’è una Bologna che non sembra una distaccata cittadina di provincia, ma un luogo agitato da un fermento inarrestabile che coinvolgeva realtà sotterranee e le grandi istituzione del sapere, nelle pagine di My Generation (Chiarelettere), il nuovo libro di Igort, vero nome Igor Tuveri. Il disegnatore che proprio qui vive e lavora e che di recente il New York Times ha inserito nella classifica degli autori di fumetti più venduti in America, presenterà il volume il 21 novembre alla libreria Coop Ambasciatori (alle 18.30).

Igort, un titolo preso da un classico del rock, la canzone degli Who.

«My Generation divenne 12 anni dopo la sua uscita, un inno del punk. Era il 1977, un anno di svolta, di affermazione di una cultura che scuoteva le menti di tanti ragazzi in giro per il mondo, dopo avere, con i Sex Pistols e i Clash, infiammato le vie di Londra. In quella generazione io mi riconosco, da lì è partita la mia avventura nell’arte».

Un viaggio che da Cagliari, dove lei è nato, la porta a Bologna.

«A Bologna, alla sua vivacità, alla mia scoperta di un luogo che si muoveva in sintonia con quanto accadeva nelle metropoli internazionali, è dedicato il libro. È stato qui che l’assonanza che sentivo con l’etica punk si è trasformata in una professione, negli anni che facevano della città la capitale italiana, e non solo, del fumetto. Primato che ha ancora adesso. Qui i compagni di avventure, quelli con cui condividevi letture e interessi, erano artisti come Andrea Pazienza e Freak Antoni. E in Piazza Maggiore i Clash si esibivano gratis. Per noi, che in quel clima eravamo immersi, questa ricchezza di sollecitazioni appariva normale. Solo molto tempo ci siamo resi conto che Bologna era protagonista, tra la fine degli anni 70 e gli 80, di una stagione unica, irripetibile».

Tra i tanti incontri rievocati nel libro, quello con Francesca Alinovi.

«Francesca era non una critica d’arte, ma una antenna capace di captare in anticipo quello che succedeva fuori dai nostri confini. A casa sua conobbi Kenny Scharf, uno degli esponenti più in vista del graffitismo, lei portò a Bologna Keith Haring, entrare nella sua casa era come immergersi in un universo così affollato di idee, pensieri, personaggi i cui stimoli sono poi stati elaborati in tante produzioni culturali. Penso alla rivista Valvoline che, per prima, mise insieme i tantissimi talenti del fumetto bolognese, dando visibilità a una scena ancora oggi attuale».

Qual era l’elemento realmente caratterizzante di quella scena?

«Sicuramente la continua commistione tra cultura alta e cultura pop. Questo avveniva soprattutto grazie a docenti del Dams, che faceva da catalizzatore di tante intelligenze, a iniziare da Umberto Eco. E poi c’era Gianni Celati, uomo di lettere che su Valvoline scriveva di musica, erano stretti i rapporti con Oreste del Buono, che ci ha fatto conoscere i migliori giallisti americani».

In cosa, invece, Bologna le sembra meno attenta?

«Bologna, da un lato ha espresso e continua a esprimere importanti scenari culturali, dall’altro non è capace di valorizzarli come meriterebbero. Penso a Magnus. Abbiamo dovuto aspettare la sua morte perché in città venisse organizzata una esaustiva mostra retrospettiva. Anche noi di Valvoline siamo stati celebrati in una esposizione solo nel 2014, a trentuno anni di distanza dalla pubblicazione del giornale!».

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